Orgasmo al Supermercato
È una giovane donna bionda di trentadue anni. Ha un viso molto bello e due grandi occhi azzurri, ma ha un corpo obeso. La manda una persona che è da alcuni anni in analisi da me. Al telefono dice che desidererebbe incontrarmi perché ha un problema da cui non riesce a liberarsi. Fisso un appuntamento e la incontro.
Si siede e si nota un certo imbarazzo, non sa da dove incominciare. Si sente molto sola, mi dice. Sente la mancanza di una persona che sia dolce con lei, sente che ha un grande bisogno di dolcezza e che gli piacciono molto i dolci. Non può farne a meno, soprattutto del loro profumo, del loro odore. Sorride.
“Dolce, dolcezza, dolci”, ripeto io sorridendo. “Sì, è vero, l’ho notato mentre parlavo”, dice lei ridendo. “Sono troppo grassa. Ero dimagrita, stavo bene, poi a un certo punto c’è qualcosa di non controllabile per cui mi rimetto a mangiare. È da quasi vent’anni che va avanti questa storia. Ingrasso, dimagrisco, e poi ritorno ad ingrassare. Non ho volontà. Ora sono quasi tre anni, da quando è nato mio figlio, che non riesco a perdere peso. Mia madre abita con me, mi aiuta a tenere il bambino, se no, non potrei lavorare. Ho una situazione strana con mio marito, non abbiamo mai abitato insieme. Ci siamo sposati perché è nato il bimbo. I miei (il fratello e la madre, il padre dice che è morto da parecchi anni) erano titubanti sul fatto che tenessi il bambino, in quanto non era sicura la relazione con mio marito. Io ho voluto tenerlo, ma con mio marito non funziona, probabilmente mi separerò”, e scoppia a piangere. “Mia madre, mia madre… Mio figlio chiama mia madre mamma. C’è una doppia mamma. Sono sempre ancora figlia. Sono molto legata a mia madre, e anche molto condizionata da lei. Lei fa per me, perché io sono pigra, comoda”.
La seduta si chiude introducendo un aspetto che verrà poi sviluppato in seguito:
“Facevo un gioco da piccola, mi chiudevo nello sgabuzzino e mi travestivo con gli abiti di mia madre. Ci passavo ore. Mi sentivo molto sola e mi travestivo per essere in due. Mi sono costruita un mio mondo immaginario che ha incominciato a dissolversi solo dopo la nascita di mio figlio. Non voglio essere un’altra, ne ho paura, forse per questo non dimagrisco”.
Prendiamo un successivo appuntamento.
Sottolineo alcuni punti che mi paiono indicativi in questo primo incontro:
Il legame con la madre di cui è vittima e al contempo complice (emergerà poi in tutta la sua consistenza).
Incrinatura, caduta, sgretolamento del mondo immaginario, dove è racchiusa tutta la sua sfera del piacere e del godimento, nel momento in cui nasce il figlio.
Il figlio: lo tiene, lo vuole, emerge un desiderio. La nascita segna un evento simbolico e al contempo reale. Ci sono queste due mamme. Sua madre la esclude, o lei si fa escludere, dalla sua posizione di madre riguardo al bimbo.
Quale posto le assegna il figlio? Incomincia ad accennarsi qui la problematica del figlio come sguardo, lo dirà lei stessa più avanti.
“Non voglio essere un’altra, ne ho paura”. Può essere un’altra soltanto su un piano immaginario.
C’è un punto di non controllabilità per cui dopo che è dimagrita si rimette a mangiare. Un soggetto risucchiato dal fantasma.
Il secondo incontro si apre con un’interrogazione. “Chi sono io?” Poi prosegue, “Ho paura di essere un’altra, mi sento una estranea in casa, mi sono sempre sentita un’estranea. Mio figlio mi guarda, certe cose da quando c’è lui non riesco più a farle, mi sembra quasi impossibile oggi averle fatte. Non ci gioco insieme”. (Queste cose riguarderanno il sesso). “Quando mi dicono o si rivolgono a me dicendo: tuo figlio… ho una sensazione di estraneità, è qualcosa di estraneo a me. Dove sono io? Il travestimento non funziona più”.
A questo punto le chiedo di parlarmi, di dirmi qualcosa di più sul suo mondo immaginario (lo aveva introdotto nel precedente colloquio) e della sua famiglia, la madre, il padre morto alcuni anni prima, il fratello ecc. È un po’ titubante a parlarmi del suo mondo immaginario. Me ne parlerà a lungo qualche tempo dopo. “Ci sono molte cose che dovrei dirgli, non so, sono molto imbarazzata, mi vergogno, non ne ho parlato mai con nessuno, sono cose molto intime, mi dovrei fidare di lei, non so come lei possa giudicarmi. Ho un armadio nella mia stanza dove tengo i dolci. È il mio luogo segreto”, dice arrossendo e con un sorriso che tenta di smorzare il proprio ascoltarsi, “Ha preso il posto dello sgabuzzino in cui mi travestivo. Nella mia famiglia il cibo è molto importante. Per mia madre il cibo è al primo posto tra gli oggetti, tra le cose che desidera e che le danno piacere, poi vengono i gioielli. Deve esserci sempre una riserva, una scorta in casa”.
In questo caso il cibo è connesso al piacere ma anche alla morte: “Quando mio padre stava male, mia madre faceva delle pietanze che lui voleva, ma che potevano anche fargli del male. Mia madre si racconta attraverso i cibi che cucina, è un modo per esserci. Dal momento che ho dei problemi di comunicazione, di accettazione (sono sempre stata seconda rispetto a mio fratello), pensavo che il cibo poteva essere per me un modo per starle vicina, per avvicinarmi a lei”.
Qualche mese dopo in una successiva seduta parlerà del rapporto che intercorreva tra il padre e il cibo. “A mio padre piaceva mangiare, piaceva soprattutto gustare il cibo. Ho dei ricordi molto vivi, ancora presenti, sono delle sensazioni di quando mangiavamo insieme. Condividevo con lui il piacere di gustare certi cibi. Non poteva rinunciare al mangiare, è morto per il piacere di gustare certi piatti. Mio padre mi capiva, mi sentivo amata, comprendeva che tra me e il cibo c’era qualcosa di complicato. Mia madre no, dice che non ho forza di volontà”.
Cosa emerge da questo racconto?
Da una parte abbiamo la madre e i suoi oggetti di soddisfacimento, il cibo e i gioielli. Raccontarsi attraverso il cibo è un modo per essere e soprattutto di fare la madre. Assolve il compito nutrizionale del materno. Non deve mai mancare la riserva di cibo, è sul versante della conservazione e del mantenimento. Mantenimento delle posizioni. C’è consumo ma c’è anche riserva. Dall’altra parte abbiamo il padre che gusta, che consuma il cibo, alcuni particolari cibi. Non mangia per nutrirsi ma per soddisfarsi e per godere, e non arretra di fronte alla morte che questo godimento gli può recare. È un padre che di fronte al godimento non sa che fare, se non sottomettervisi.
Da una parte quindi, questa giovane donna attraverso il cibo gode con il padre, fa come il padre, dall’altra si mette al posto dell’oggetto del desiderio della madre, diventa oggetto per l’Altro. Due modi per comunicare con il padre e con la madre. Godendo con l’uno e come l’uno, e diventando oggetto per l’(A)altro.
Nel proseguo degli incontri mi parla del suo sentirsi esclusa. È una cosa che ha sempre provato, anche da piccola nella sua famiglia originaria, quando s’intratteneva per ore nello sgabuzzino senza che nessuno l’andasse a cercare, solo il padre qualche volta, e poi andava a perlustrare la casa quando il fratello era uscito. Andava nella sua stanza (del fratello) e toccava le sue cose, usava il suo giradischi etc. etc.
“Mia madre insiste che mi separi, tutto sommato ha ragione, però è come se volesse farlo fuori il padre di mio figlio e metterci al suo posto mio fratello. Ci stanno escludendo”. Piange.
“Mio padre chiamava mia madre il caporale. Non lo lasciava fare in casa, si faceva come voleva lei. Lui si occupava d’altro, era colto e sensibile, guadagnava bene, era più intelligente di mia madre. Lei è più furba, ci sa fare di più”.
A questo punto, mi parla di una cosa mai emersa fino ad ora. Gli è venuta in mente adesso. I suoi occhiali. “A sei anni ho dovuto mettermeli. Non li volevo, è una sorta di rifiuto, di fobia che ho verso gli occhiali. Dicevo: se metto gli occhiali non troverò nessuno che mi sposi. Non so perché dicessi questa frase, non lo so neppure ora. Gli occhiali mi danneggiavano, sentivo che nascondevano qualcosa di bello che avevo. Forse perché una zia mi aveva detto «peccato, con quegli occhi così belli deve mettersi gli occhiali». Più avanti, quando sono diventata grande, ho saputo che con i miei occhi potevo ottenere, desiderare quello che volevo. Mi dicevano che avevo dei bellissimi occhi”.
Rilevo alcuni punti:
L’esclusione: si esclude a partire da una supposta esclusione in merito al desiderio della madre. La creazione e l’investimento nel dispositivo immaginario è un modo di escludersi da una dimensione simbolica che viene recuperata o per lo meno accennata nella nascita del figlio. È seconda rispetto all’amore della madre, al desiderio materno, è seconda dietro al fratello. Madre e fratello fanno coppia nel fantasma, sia storicamente che ora riguardo a suo figlio.
Toccare gli oggetti del fratello, il mondo degli oggetti dell’altro. Dopo parlerà dei feticci. La promozione della legge sembra più essere dalla parte della madre nel rispetto però del padre.
Occhiali: Fanno da velo, ostruiscono l’oggetto, l’occhio che è in una posizione di assoluta potenza fallica. È il fallo. “Con i miei occhi potevo ottenere, desiderare ciò che volevo”. Il “Non troverò nessuno che mi sposi” è analogo del “Non potrà esserci rapporto sessuale”.
L’introduzione del problema degli occhiali nei colloqui dà avvio al racconto sempre più specifico sulla propria dimensione immaginaria e sui suoi rapporti sessuali.
Mi parla del suo lavoro. È dipendente in un aeroporto. Ritiene di non avere scelto a caso questo lavoro: le permette di conoscere molta gente, soprattutto molti uomini provenienti da tutte le parti del mondo, di parlare diverse lingue e d’intrattenersi con essi per pochi minuti o in alcuni casi 24 o 48 ore. Le sue storie sono o del tutto immaginarie: incontra una persona per pochi minuti, il tempo di svolgere il suo lavoro e poi s’immagina… etc, oppure vengono consumate nel giro di una o due notti, invitandoli alle volte a casa sua o in altri luoghi. Spesse volte andava prima al ristorante con il partner per prepararsi a fare all’amore. “Così era più bello, più gustoso”; e mi racconta anche con una certa reticenza e difficoltà una serie di particolari, forme di erotismo legate al cibo sul corpo che accompagnavano l’atto sessuale.
Dopo alcune sedute, in cui continua a trattare questo argomento, arriva a cifrare così le sue storie: “Non ho avuto rapporti con delle persone, ma soltanto con dei personaggi, con delle storie. Quel che mi soddisfaceva era poi raccontarle ai miei amici, e il loro stupore nel sentirmele raccontare”.
Qualche incontro seguente riprende a parlare del suo luogo segreto, l’armadio. “Nell’armadio ci sono i dolci”, mi dice. “Vado nella mia stanza quasi di nascosto, devo essere sola, nessuno deve vedermi, voglio consumare il sesso da sola”. Si accorge del lapsus, voleva dire consumare il cibo.
“Non ci avevo mai pensato, li avevo sempre distinti il cibo e il sesso, invece no, mangiare è come fare sesso, difatti non ho mai mangiato per fame. Ecco perché per me il cibo diventa quasi come una persona”.
La personificazione del cibo sarà uno degli argomenti che svolgerà in seguito, ma prima di giungervi mi parla del valore che essa dà ai suoi sensi:
In prima battuta l’olfatto, in seconda il gusto, e in terza la vista. “Non posso rinunciare alla fortissima sensazione che provo nell’annusare e poi gustare il cibo. Annuso anche le persone. Qualche mese prima di venire in analisi, ho avuto quasi un orgasmo al supermercato di fronte al banco “pasticceria”, e ho avuto paura”.
Gli ultimi mesi:
“Da quando è nato mio figlio, non faccio più sesso. Non m’interessa più, non sento più nessun desiderio. Mi piacerebbe avere un uomo, innamorarmi di qualcuno, amarlo, ma è come se mi escludessi da ciò. C’è quasi una scorporazione, mi accorgo oggi del mio corpo perché me lo fanno notare gli altri. Non penso al mio corpo, mi distanzio dalla mia immagine. Mi resta il cibo, non riesco a farne a meno, tutta la faccenda sessuale è convogliata nel cibo. Non posso entrare in una pasticceria da sola. Mi vergogno, mi sentirei scoperta. Alcuni cibi posso soltanto mangiarli segretamente, questo succedeva anche nel passato, certi cibi potevano essere consumati con la famiglia, altri no. Mi conosco solo attraverso il piacere. Non mi stimo abbastanza per poter essere. Sono indecisa. Da una parte mi farebbe comodo cambiare, dall’altra no. Non so quello che voglio, è per questo che sono venuta qui. Mio figlio e l’analisi, i miei unici desideri attuali. Riesco a parlare qui, mi sento sempre più libera di poter parlare, non mi sento giudicata. Mi sarei già sparata se non ci fosse questo posto. Lei non gode di ciò che le dico, questo è molto importante, perché le cose di cui parlo si appiattiscono, hanno meno valore per me”.
La terapia è proseguita ancora per diverso tempo dando una serie di risultati positivi importanti riguardo ad alcune trasformazioni nei rapporti che la paziente intratteneva con la madre e con il fratello; c'è stata una maggiore liberalizzazione emotiva nei loro confronti e una più decisa consapevolezza del suo ruolo di madre nei riguardi di suo figlio. Nonostante tali elementi evolutivi l'analisi si è interrotta perché non la ritengo conclusa sul fatto di volersi fare operare per perdere peso e modificare velocemente la propria immagine corporea. La signora considerava l'operazione chirurgica una possibile risoluzione e soprattutto valutava con favore il fatto di riuscire a sottoporvisi; lo riteneva un risultato del percorso analitico che aveva diminuito le funzioni inibitorie e paralizzanti che avevano sempre costellato la sua vita. Sono d'accordo con quest'ultima tesi della signora, non ero però assolutamente d'accordo con il fatto che il lavoro analitico e l'operazione chirurgica dovessero escludersi vicendevolmente. Sarebbe stato interessante analizzare nella terapia i risultati dell'operazione, farli circolare nella parola, ma ciò non è stato possibile.
Dott. Giovanni Castaldi