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2011/2012 Roberta

Elaborati prodotti durante il corso di Metodi e Tecniche dell'Arteterapia, tenutosi presso l'Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, anno accademico 2011/2012.

Autrice:

Roberta

 

Qualche parola come introduzione…

L'arte-terapia è un percorso di appoggio e/o cura di indirizzo psichico. È importante però, prima di applicare il metodo su altre persone, fare un’analisi di se stessi. Questo corso ci ha aiutato (a chi più, a chi meno) a notare certi aspetti della nostra vita a cui magari non
davamo troppa importanza.
Inizialmente pensavo che il corso fosse più didattico, con molte più nozioni sul linguaggio del disegno in generale, anche applicato ai bambini, che sostanzialmente sono l’argomento che più mi affascina. Avevo già letto un libro sul tema per un altro corso che si chiama “i disegni dei bambini come aiuto diagnostico” di Joseph H. Di Leo, e l’avevo trovato estremamente interessante.
Personalmente devo dire di essere una persona abbastanza estroversa con le persone che conosco, quindi parlare di cose e problemi personali era una cosa che mi era già capitata. È però vero che farlo davanti ad una serie di (inizialmente) sconosciuti è stato davvero un problema. Col tempo conoscendoci un po’ e iniziando a vedere che ognuno di noi faticava a parlare di sé, ci si accorgeva di essere tutti nello stesso stato. A sentirci tutti con ben o male le stesse sensazioni ci si trovava un po’ più “a casa” e il parlare diventava più facile. È anche vero che rispondere a varie domande ti porta comunque a parlare di te e a perderti magari in altre cose che non centrano con la domanda iniziale. Eppure tutto serve secondo me. Mi ricordo di una volta in cui avevo un problema con un ragazzo che mi piaceva. Ho iniziato a parlare con un mio amico per quasi un’ora di questa cosa; alla fine mi è venuta in mente una sorta di spiegazione più che plausibile sul motivo per cui mi trovavo ad avere quel determinato problema. Così mi sono accorta di quanto faccia bene parlare con chi hai vicino dei tuoi problemi. Anche se, devo ammettere, è probabile che io esageri, essendo che i fatti miei li racconto sempre a ottomila persone e forse è un po’ troppo…!
Fatta questa breve e forse poco centrata introduzione, possiamo passare al laboratorio svoltosi durante questo semestre, esaminando lavoro per lavoro.

 

"L'ALTRO"

Devo dire che per questo lavoro ho fatto una fatica incredibile a trovare un’idea che potesse portare ad un lavoro decente. Altro… per me altro è qualcosa di diverso da me, qualcosa che NON E’ me. E se non è me, è l’altro per forza. O per lo meno altro è qualcosa che non è il soggetto della frase. Quindi sono partita dal concetto che già solo la parola in sé ALTRO in un’altra lingua è diversa da quella che uso io. Così sono andata su Google Translate e ho cercato quella parola in lingue diverse. Ho trovato dal portoghese al croato, dallo sloveno al danese, ecc…
A questo punto avevo una serie di altri che non sapevo dove mettere. In quei giorni stavo imparando a fare un po’ di costruzioni con la tecnica degli origami. Così ho pensato di trovare qualche “opera” fosse adatta scriverci sopra una serie di parole. Gira e rigira trovo la forma quasi perfetta: il cubo. Per costruire un cubo avevo bisogno di sei foglietti, piegati tutti nella stessa maniera. Nel modo in cui si incastrano, si vengono a formare le sei facce del cubo ed ognuna è composta da 4 triangoli. Ogni parola che scrivevo costruendo l’origami, andava a incastrarsi vicino ad un’altra in un’altra lingua. Incastro su incastro ogni scritta era vicina ad una sua simile, ma in una lingua diversa e il cubo era completato. Ogni scritta è stata fatta con un colore diverso rispetto all’altro.
Anche nella diversità ci può essere una similitudine. Per fare questo lavoro ho notato di aver avuto molte difficoltà: io solitamente do molto peso alle parole. Mi è sempre piaciuto sia leggere che scrivere; e penso che ogni termine che usiamo sia fondamentale per farci
capire a pieno dagli altri. Perché infondo sono proprio loro che costruiscono il nostro mondo. Dalla vecchietta incrociata in farmacia, al barbone alla fermata del pullman, all’edicolante, ognuno di loro è un altro e senza di loro non esisterebbe nulla al di fuori di noi.
Ci penso. Se ci fossi solo io e gli altri non esistessero, che mondo sarebbe? Sarei un po’ come il Piccolo Principe che finisce per parlare con una rosa o con una pecora. Nono che tristezza! Io ho assoluto bisogno degli altri per vivere bene! Certo, a volte anche sola sto bene, ma sono gli altri che creano il mio mondo; affollano i miei pensieri, mi tengono compagnia al mattino quando mi sveglio, durante il giorno, prima di dormire, inconsapevolmente anche la notte. È grazie a loro se non ci sentiamo soli.
Spesso le incomprensioni nascono dal fatto che “non ci si è capiti” e quindi penso che le parole che usiamo siano una delle cose più importanti nel nostro rapporto con gli altri. Tutto ciò per dire che quando mi sono dovuta trovare davanti un compito su questo tema, ho iniziato a chiedermi che infinità di significati potesse avere quella parola; e credo che ne abbia davvero tantissimi. Quindi a questo punto la difficoltà era chiedersi se dovevo trovare un modo di rappresentarli tutti insieme o sceglierne uno e dedicarmi a quello. Durante il corso ho però capito che l’importante del lavoro era come l’avrei voluto fare IN QUEL MOMENTO, e da lì ragionare sul fatto che, a distanza di un giorno, un mese, un anno, se avessi dovuto rifare il lavoro l’avrei potuto fare in maniera diversa. A me vengono spesso idee
diverse dalle precedenti, quindi sono abbastanza sicura che ognuno dei quattro lavori che ho fatto durante questo corso, se lo dovessi rifare in questo momento sarebbe sicuramente diverso; soprattutto perché
vedendo il lavoro degli altri, le idee cambiano, si modificano, si amplificano e ti danno nuove ispirazioni.
Credo che la mente sia un po’ come una spugna: assorbe ogni cosa; e sostanzialmente cerca sempre di prendere un po’ il meglio da ciò che la circonda. Si può sempre imparare qualcosa!
Qualche mese fa parlando con un mio amico, mi son sentita chiedere “ma perché tu hai il pallino di imparare? È così importante?” “Sì”. Direi che nella mia vita imparare è non fondamentale, di più. Già solo in questo lavoro sull’altro ho imparato a fare un cubo con la tecnica degli origami. Sarà una cosa banale, ma ero contentissima. A volte mi fa piacere anche imparare cose che sono inutili, non mi importa, direi che “tutto fa brodo”. Ad esempio alle superiori ho imparato a scrivere con la mano sinistra, così, per sfizio;
oppure nella mia calligrafia non mi piaceva come facevo la G, così ho deciso di cambiarla e ho imparato a farla in maniera diversa. Pensandoci meglio questo mi è successo anche con tutte le altre lettere: io scrivo praticamente solo più in stampatello minuscolo perché quando facevo le medie ho deciso che il corsivo non mi piaceva, e piano paino ho sostituito tutte le lettere.

Un’altra cosa che mi sono accorta facendo questo lavoro è che io NON SONO UN’ARTISTA. Adoro l’arte,
sono curiosa dei lavori che fanno anche solo gli “artisti in erba” dell’Accademia. Ma io, Roberta, non sono decisamente un’artista! Ho notato che gli artisti hanno delle filosofie dietro alle loro opere che sono pazzesche. Non per sminuirmi ma filosofie che stanno dietro ai miei lavori si riducono a mezz’oretta e sono fini a se stesse. Ho sentito un ragazzo che esponendo il suo lavoro ha detto “io sono vent’anni che penso al concetto dell’altro”… sono rimasta a bocca aperta… il mio concetto dell’altro si era sviluppato in un’ora in un mattino di pioggia, dopo aver fatto una ricca colazione ed essermi guardata una puntata di un telefilm, mentre questo artista ci combatte da vent’anni? Wow. Complimenti. Tutta la mia ammirazione. A questo è infatti collegato il fatto che a me piacendo imparare, ho un particolare interesse verso gli altri. Nella mia vita so già che mi piacerebbe fare un sacco di lavori. A parte il solito discorso che non c’è lavoro e quindi noi giovani siamo destinati a non avere un posto fisso, a me piacerebbe davvero cambiare una serie di lavori, anche perché credo che ci sia la possibilità (non la certezza!) che fra trenta o quarant’anni i miei interessi siano diversi da quelli attuali. Ora come ora da grande vorrei insegnare alle scuola medie o alle superiori oppure lavorare come giuda nei musei, nei castelli,… Lavori in cui è necessario sapere un sacco di cose di persone che “non sono io” (giusto per non ripetere altre per l’ennesima volta). Detto così sembra che io quasi voglia lavorare in un giornale di gossip, non è proprio così! Le cose che mi interessa sapere sono altre, e le persone famose che studio io non sono sicuramente il calciatore o la velina di turno.
Il mio interesse verso gli altri ora che ci penso è come una sorta di “voler sentire altre storie”, ecco che il collegamento con il mio amore per i libri ritorna. Ascoltare le storie di altre persone qua in Accademia a me è piaciuto tantissimo. Perdermi nei loro racconti, immaginarmi la storia, accorgermi di quelle piccole cose che magari sono successe anche a me o al contrario rendermi conto di aver vissuto esattamente il contrario e provare magari una punta di invidia o di sollievo per non essere stata in quel determinato posto in una
specifica situazione. È bello sentire i racconti degli altri. Ti fanno riflettere un sacco sulla tua vita e sul tuo modo di vedere e vivere le cose. Non credo che la mia vita abbia avuto particolari cambiamenti con questo corso, però devo ammettere che su certe cose mi ha fatto davvero riflettere, e non solo la mezz’oretta dopo colazione in una giornata di pioggia!

2   Altro

 

"SESSUALITA’"
Lo ammetto. Anche per questo ho avuto parecchia difficoltà. Sono temi troppo vasti! Ognuno fa un lavoro personale e vede l’argomento in maniera diversa e soprattutto non è che se “prende una determinata via” non prende anche l’altra. Ripensavo a questo lavoro qualche giorno fa e la prima cosa che mi è venuta in mente è che se dovessi farlo ora, non lo rifarei così: ora come ora farei una sorta di grande cartellone colorato con gli acquerelli: da un lato rosa, dall’altro azzurro e che si mischino nella parte centrale. Qui attaccherei immagini di corpi di uomo e donna in parallelo. Un piede di una donna e un piede di un uomo. Un braccio di una donna e un braccio di un uomo. Una bocca di una donna e una bocca di un uomo. Però anche qua c’è qualcosa che non va. La sessualità esiste solo fra uomo e donna? Ma a questo punto mettere foto di due mani di donne o due mani di uomo perde un po’ il senso del contrasto uomo/donna. Quindi ora mi chiedo: ma quindi la sessualità è un contrasto? Ecco, un’altra volta in cui le parole mi incasinano e non mi fan più capire nulla. Non possono essere in contrasto se in realtà uomo e donna si dicono complementari. Ma sono complementari pur essendo opposti?
Basta sto divagando. Mi capita spesso. E divago talmente tanto che finisco poi per non ricordami da dove ero partita. Sì, sono un po’ logorroica. È colpa della mia professoressa di letteratura delle superiori! Secondo lei le mie risposte nei test erano troppo concise; così mi consigliò di immaginarmi che chi leggeva la risposta sapesse pochissimo dell’argomento e quindi io avrei dovuto dare delle informazioni base per contestualizzare la mia risposta. Da allora ogni cosa che racconto è sempre formata da un sacco di dettagli (spesso addirittura inutili) che aggiungo per contestualizzare meglio. È anche vero che come ho già detto prima, io adoro scrivere. Mi piace scrivere racconti inventati di sana pianta, o cose vere, o magari cose inventate basate sulla mia realtà; quindi descrivere le situazioni, gli odori, i luoghi, le persone, è un po’ una “deformazione professionale”, anche se non è la mia vera professione. Sì, vorrei anche fare la scrittrice! Ovviamente di romanzi definiti leggeri, come quelli della Kinsella, o la Bertola, o la Mastrocola; commedie che rispecchiano un po’ le vite della gente comune, con a volte qualche fatto un po’ strano per dare un senso di comicità alla storia e ovviamente un lieto fine. Quei libri che quando chiudi l’ultima pagina hai il sorriso stampato sul viso. Gli stessi che per qualche ora ti fanno evadere dalla tua vita e sognare almeno un po’. Ecco che divago di nuovo. Torno al mio lavoro.
Era la settimana in cui come laboratorio dovevamo portare “la sessualità” e come ho già sottolineato all’inizio, non avevo la minima idea di cosa fare. Un giorno, mentre leggevo per questo corso il libro “il linguaggio grafico della follia” di Vittorino Andreoli, ho trovato una frase che conteneva la parola sessualità e così con quell’input ho iniziato a lavorare. Mi è subito venuta in mente un’immagine che avevo visto qualche anno fa su un sito internet.
Quest’immagine giocava fra “i pieni e i vuoti” come direbbe una mia professoressa: guardando i pieni si vedeva una cosa, ma osservando invece i vuoti, ne appariva una completamente diversa.
In questa immagine si nota subito un corpo di donna nuda inginocchiata con un uomo dietro di lei che la abbraccia; nel sito però, veniva spiegato che quella stessa immagine mostrata ad un bambino non avrebbe avuto lo stesso risultato. Un bambino guardandola avrebbe detto “ma sono nove delfini”. I bambini non conoscendo l’immagine della donna nuda non l’avrebbero notata, mentre avrebbero subito riconosciuto i 9 delfini perché è una scena a loro familiare.
A questo punto io da anni mi chiedo perché noi adulti vediamo PRIMA la donna e POI i delfini? Da qui è partita una considerazione sui messaggi subliminali, visti solo dal punto di vista sessuale. Il numero del diavolo nel codice a barre e altre strane idee, non rientravano nel mio lavoro e non li ho trattati.
Ho cercato immagini che potessero sembrare messaggi subliminali o più che altro immagini nascoste o camuffate. Ma nascoste da chi? Nascoste perché? Perché camuffarle? E soprattutto a che scopo?
Un’immagine di Paperinik con lo sfondo dei grattacieli che ipoteticamente possono sembrare dei falli, a cosa serve? Se il bambino tanto non riconosce il fallo in sé ma vede solo l’edificio (e ad essere onesta anche io in quella particolare immagine avevo visto realmente solo un palazzo e non gli avevo attribuito alcuna forma fallica!), a che scopo VOLERGLI dare una simbologia fallica?
Perché noi VOGLIAMO vedere tutti questi doppi sensi? Classico esempio: perché una ragazza non può mangiare una banana in santa pace, senza avere qualche sorrisino dal passante di turno? È una banana! Nel dizionario è sotto la definizione “Frutto mangereccio del banano: è una bacca oblunga, falcata, gialla, a polpa compatta e dolce, di lunghezza che varia, a seconda delle specie di banano, da 10 a 30 cm” e invece no! Ragazza + banana = sorrisino.
Lo ammetto, in macchina ho 3 banane di peluches. Hanno gli occhi, il naso e la bocca, erano carine, costavano poco e stavano bene nella mia macchina insieme alle tre scimmie di peluche. Ma appena dico “ah io ho tre banane in macchina…” neanche tempo di dire “…di peluches” che qualcuno già ha pensato male.
Il pensare male, il doppio senso, la battutina,… ma perché la nostra cultura ne è così invasa? Accendo la tele e vedo solo più tette, culi e fighe! Perché diciamolo, non è neanche più un problema dire la parola “fighe”.
Siamo diventati un popolo un po’ volgare e mi ci metto dentro anche io. Come ho già detto, io spesso e volentieri passo il mio tempo con persone di genere maschile quindi i doppi sensi li faccio io ancora prima che me li possano fare loro. Solo mi chiedo, perché oramai la nostra società si basa su questo? A volte lo trovo un po’ triste. Anche solo il fatto di mettere donne mezze nude ovunque. Vogliamo mercificare il corpo? Non ne son proprio d’accordo… ma se proprio si vuole fare… mercifichiamo pure quello dell’uomo!
Voglio la parità dei sessi!
Io ho uno strano rapporto con il mio corpo nei confronti degli altri. Mi ricorderò sempre una volta in vacanza con amici. Eravamo due coppie. Io ero in bagno e dovevo fare la doccia. Entra in bagno il ragazzo dell’altra coppia e mi fa “ma sei nuda! Scusa!” e se ne va. Lui quasi shockato. Io per niente. Ero nuda, e allora? Si vedono donne nude in televisione ogni 2 canali; mi vedeva ogni giorno in costume; quale era il problema? Ecco, come al solito sembro io quella strana. Mi capita spesso che per certe cose io “non mi faccia troppi problemi”.
Abito nella piazza di un paesino da 1000 abitanti, sono al secondo piano e non ci sono case abitate intorno, solo la chiesa, il comune e la scuola. Vorrei prendere il sole in topless, ma dal balcone dove sono io alla piazza si vedrebbe tutto. A me sinceramente non importa, ma il punto è: cosa penserebbe la gente? Mi immagino i pensieri delle vecchiette, gli sguardi dei passanti e le voci che si spargono per tutto il paese. Ok, meglio che magari metta un qualcosa per “barricarmi nel mio balcone”. Wow. Per prendere il sole nella maniera in cui siamo nati tutti (nudi!) devo barricarmi in casa, ma la Belen di turno mostra tette e culi su internet. Mmm, io dico che c’è qualcosa che non va.
Tutti troppo volgari e tutti troppo bigotti. Povera sessualità! Lei si nasconde ovunque (anche nelle prese!) e noi la vediamo solo quando ci fa comodo!

3   Sessualita

 

"VIOLENZA"
Violenza è rosso. Violenza è nero. Violenza è urla. Violenza è strappi. Squarci. Pezzi. Brandelli. Male. Dolore.
Mi si accende una lampadina: un quadro di Salvador Dalì, Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile.

Morbida costruzione con fagioli bolliti premonizione di Guerra Civile



Questo quadro l’avevo studiato alle superiori e mi ricordo che mi aveva lasciato senza parole. Subito mi sembrava orribile. Insomma, pezzi a caso, mezzi sparsi, senza un minimo collegamento logico! La professoressa ci aveva chiesto “Pensate alla guerra, a tutti i corpi vivi e morti che ci sono. Come ve la immaginate?” e in una qualche maniera mi era venuta in mente quell’immagine lì. Da allora quell’opera è rimasta nei miei ricordi. Non mi conoscevo il titolo, né l’anno, né i dettagli compositivi o simili. Però mi era entrata in mente.
Così, con questa idea di pezzi collegati uno all’altro mi è venuta l’ispirazione di prendere una bambola e distruggerla. Braccia, gambe, testa, tutto staccato dal tronco principale. Inizialmente avevo pensato di fare la base di cartoncino ricoperta da immagini di parti del corpo, c’era un occhio, un orecchio, un mento,… mettendo sopra i vari pezzi di bambola e tentando di pare una forma “piacevole” a quest’opera (tutt’altro che piacevole), le ho cercate, le ho strappate per aggiungere ulteriormente il significato di violenza, le ho incollate, fatte asciugare,… e poi mi sono accorta che in realtà il corpo della bambola copre tutta la base e di conseguenza le immagini rimangono nascoste, quindi ho fatto quel lavoro per niente.
Questo dettaglio mi ha fatto pensare a come faccio le cose io: un po’ a occhio. Diciamo che io sono una persona un po’ globale. Non do peso ai dettagli, la mia filosofia di solito è qualcosa come “ma sì, a occhio sta bene”. Il primo semestre qui in Accademia ho seguito un corso per il quale ho letto il libro “stili di pensiero” di Sternberg; da allora mi capita di guardare le persone con occhio un po’ più categorico. Una divisione che fa l’autore nel suo libro, è fra le persone globali e le persone locali.
Per spiegarmi meglio: gli individui globali sono in grado di vedere la foresta solo nel suo intero, ma spesso perdono di vista gli alberi singolarmente. Gli individui locali invece vedono solo gli alberi nella loro singolarità, ma fanno fatica a vedere il bosco nella sua interezza. Le persone globali preferiscono affrontare un problema in maniera ampia e astratta, ignorano o non amano i dettagli; mentre un individuo con lo stile locale predilige problemi concreti riguardanti il lavoro e i dettagli, affronta le situazioni in maniera pragmatica.
Io sono CERTAMENTE una persona globale. I dettagli non mi piacciono, voglio che stia bene “nel suo insieme” se poi non è perfetto pazienza. Preferisco magari un lavoro non perfetto ma finito, che non uno perfetto, ma incompiuto. Mia sorella insegna inglese e quando mi aiutava a ripassare mi diceva sempre che quando si parla in inglese (ma credo valga anche per altre lingue) è meglio sembrare sicuri e andare avanti con le proprie frasi pur facendo qualche errore, che non fare costruzioni di frasi perfette ma bloccarsi ogni due parole a pensare.
Ma andiamo avanti col mio lavoro.
La mia bambola è stata fatta a pezzi. Staccato braccio destro, braccio sinistro, gamba destra, gamba sinistra, testa. Ora andava fatto un “collage” del corpo. Partiamo dal tronco. Più o meno al centro. Su un fianco, così non si vede troppo il buco della spalla. Seconda cosa, la testa. La testa dritta, che non si veda il buco dell’attaccatura dell’ex corpo. I capelli sono arruffati, a caso, aveva le treccine, alcune le ho sciolte, altre le ho lasciate com’erano.
Ho una momentanea illuminazione. Proprio ora, mentre sto scrivendo questa relazione sui miei lavori: ma io scrivo A PEZZI. Faccio frasi molto corte, sintetiche, periodi brevi e diretti, che esprimano subito i concetti chiave e non si dilunghino troppo. Ma allora faccio a pezzi la mia narrazione? La violento così??? No dai, forse mi sto lasciando prendere la mano da questo analizzare tutti gli aspetti del mio lavoro. È che le parole ritornano… i concetti anche… ma sono allora una persona a pezzi io? No dai, mi rifiuto di pensarlo. Sì, sono un po’ incasinata. Piena di alti e bassi d’umore. Ma proprio una persona a pezzi mi sembra così brutto da dire! Ok, la mia vita è fatta da frammenti. Ma credo lo sia ben o male quella di tutti. Diciamo che per passare da un frammento di tempo in cui magari sono triste ad un frammento in cui sono felice mi basta davvero poco. Ultimamente mi basta il sorriso di un bimbo. Dal mio nipotino di 5 anni all’altro nipotino appena nato. Dai miei bimbi a cui insegno minivolley al bimbo che mi sorride alla cassa del supermercato.
Sono piccole cose che mi fanno felice. Questo lo dico sempre “non ci va tanto per farmi contenta!”. Tornando al lavoro. Ho posizionato tutte le parti del corpo, ho preso la colla e l’ho mischiata con l’acrilico rosso (ovviamente rosso sangue) e ho attaccato ogni parte l’una con l’altra. Avevo un braccio in più che non sapevo dove mettere, così non l’ho messo. Anche perché è vero che la violenza comporta anche delle perdite, delle assenze, delle mancanze. Quindi alla fine anche un braccio in meno non era nulla di così “sbagliato”.
Alla fine si è asciugato tutto. Era un po’ inquietante. Nulla di concettuale. Completamente esplicito in ciò che doveva essere. Violenza: un corpo fatto a pezzi e pieno di sangue. Beh, come al solito dietro la mia filosofia si riduce all’essenziale.
Sentire i lavori degli altri è stato abbastanza strano. A partire dal fatto che sono sempre tutti molto interessanti, e sempre a ribadire che a me piacciono le storie, qualunque esse siano. Mi sono accorta che tanti hanno subito violenza, verbale o fisica. Io no. O per lo meno, nulla di rilevante che io mi ricordi.
Violenza fisica mai in vita mia. I miei genitori non hanno mai alzato un dito su di me. Ma zero! Forse un MEZZO calcio nel sedere una volta che non volevo mangiare la minestra. Ma sottolineo MEZZO. Per il resto credo di aver avuto un’infanzia più che felice. Anche nello sgridarmi se facevo qualcosa di male (sarà anche successo, da bambini per forza a volte si combina qualche marachella) non le ho mai prese in vita mia.
Mentre scrivo continuo a pensare a episodi di violenza a casa mia e… no… non ricordo nulla. C’è anche da dire che io sono stata sempre una bambina abbastanza brava. Mia mamma insegna in un asilo nido quindi non dico di essere cresciuta meglio degli altri, ma comunque non ero sicuramente una di quelle bambine, viziate, capricciose e smorfiose che solo al vederle mi chiedo, ma i genitori invece di fare una bambina non potevano andare al cinema quella sera?
Violenze in casa… mmm… Ah sì. Una bacinella vuota che è volata da mia mamma a mia sorella quando ero piccola. Ma se è violenza quella non mi immagino come si possa chiamare quella dei genitori che prendono a cinghiate i figli! Come violenze verbali che mi abbiano segnato nel profondo non me ne ricordo. O le ho rimosse o sono riuscita a superarle bene o non mi è mai capitato nulla di particolare. Beh ovvio, può essere capitato di sentire cose che mi abbiano fatto stare male, ma erano cose non dette per cattiveria, nè per ferirmi. Ok, dopo questo lavoro posso essere orgogliosa della mia infanzia! Sia dei miei, di come mi hanno cresciuta, sia di come io mi sia “auto cresciuta”!

4   Violenza

 

 

Questi contenuti sono stati pubblicati con l'esplicito consenso da parte dell'autore.

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